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Agricoltura e zone umide, due armi contro i cambiamenti climatici (e le guerre dell'acqua)

Trenta anni per scongiurare le guerre dell’acqua. Si potrebbe riassumere così, senza troppa paura di scadere nel sensazionalismo o nella fantapolitica, il messaggio contenuto nel rapporto mondiale delle Nazioni Unite sullo sviluppo delle risorse idriche, titolato quest’anno “Acqua e cambiamenti climatici”.

Nel 2050 più di cinque miliardi di persone potrebbero trovarsi a patire la ridotta disponibilità idrica del pianeta, assediata dalle necessità di una popolazione ormai prossima ai 10 miliardi, dall’inquinamento, e dai cambiamenti climatici. Tutela e gestione di fiumi, laghi, falde acquifere e zone umide devono essere rapidi e sistemici se si vogliono evitare carestie, pandemie e disordini sociali a ogni livello, ammonisce il rapporto. Il luogo principe dell’intervento è individuato nell’agricoltura, il metodo nelle soluzioni naturali, chiamate a sostituire le “grigie” infrastrutture costruite dall’uomo nei secoli dello sviluppo incontrollato.

L’acqua, lamenta nella prefazione il direttore generale dell’UNESCO Audrey Azoulay, appare raramente negli accordi internazionali che riguardano il clima. È invece elemento fondamentale della soluzione: “La protezione delle zone umide, l’agricoltura conservativa e altre soluzioni naturali possono aiutare a contenere il carbone nelle biomasse e nei suoli. Il miglioramento nell’amministrazione delle acque reflue può aiutare nel ridurre l’emissione dei gas serra, e generare biogas come fonte di energia rinnovabile”.

Dei 4.600 chilometri cubi utilizzati ogni anno il 70% va all’agricoltura, il 20% all’industria e il 10% al consumo domestico. Nell’ultimo secolo il consumo è aumentato di sei volte e continua a crescere dell’1% all’anno. Alluvioni e siccità sono le antitesi nate dal comune fenomeno dei cambiamenti climatici. I numeri che descrivono la loro declinazione nella vita degli esseri umani sono spaventosi.

Secondo il report negli ultimi venti anni eccessi e carenze d’acqua hanno causato la morte di 166.000 persone, interessato 3 miliardi di persone e determinato danni economici per oltre 700 miliardi di dollari. In soli dieci anni, si legge nel capitolo dedicato all’impatto sulla salute, le morti causate dal cambiamento climatico potrebbero aumentare di 250.000 unità. Nel 2016 i decessi riconducibili alle malattie veicolate dalla scarsità o l’insufficiente depurazione delle risorse idriche ammontano a quasi 1.900.000. Non un dato confortante nell’epoca della pandemia da Covid-19. È curioso che nonostante gli insostenibili livelli di sfruttamento delle risorse idriche 821 milioni di persone, l’11% della popolazione mondiale, risulti severamente malnutrita.

Secondo il report dell’ONU la sfida posta all’agricoltura dai cambiamenti climatici si presenta in due forme fondamentali. Da una parte le pratiche produttive devono prepararsi a un futuro prossimo caratterizzato dalla scarsità e dagli “eccessi” d’acqua, dall’altra sarà necessario “de-carbonizzare” l’agricoltura attraverso misure di mitigazione del clima e una gestione razionale dei cicli produttivi che metta in sinergia le soluzioni naturali e le nuove tecnologie a disposizione come, ad esempio, l'utilizzo dei droni (leggi il pezzo sul tema).

I dati riportati dall’ISPRA segnalano come il settore agricolo rappresenti circa il 7% delle emissioni di gas serra in Italia, e il 94% delle emissioni di ammoniaca. Il deposito di ammoniaca dà origine a diversi problemi ambientali, quali l’acidificazione dei suoli, l’alterazione della biodiversità e l’eutrofizzazione delle acque di fiumi, laghi e mari per l’eccessivo arricchimento di sostanze nutritive.

Nessun terrorismo verde, nessuna apocalisse disegnata a bella posta. I cambiamenti climatici già condizionano la nostra vita quotidiana, anche nei territori del progetto Maristanis. “In mezzo secolo non ho mai irrigato in febbraio” ci raccontava solo poco tempo fa Luigi Nivoli, storico agricoltore di Arborea. Le abbondanti piogge di ottobre e novembre hanno improvvisamente abbandonato i cieli dell’oristanese. “Se la quantità d’acqua presente negli invasi non è quella di una siccità generalizzata, di certo si può definire siccitoso il periodo affrontato dalle aziende agricole”, spiegava Michele Fiori, ricercatore del Dipartimento Meteoclimatico dell’ARPAS.

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