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Storia, religiosità e leggenda: le chiese romaniche di San Vero e Santa Giusta

Luci e ombre si contendono la chiesa di Santa Sofia, a San Vero Milis, immersa nella quiete del mattino. Il sole scalda l’arenaria dell’alto campanile, lo esalta contro il cielo azzurro. La facciata resta in ombra, spicca il rosone gotico cerchiato di mattoni rossi, un grande occhio attento sulla simmetria dei portoni. Nessuno percorre le strade del centro di San Vero Milis, uno dei centri più ricchi di storia fra quelli che toccano le terre d’acqua di Maristanis.

Viaggio nei secoli nella Chiesa di Santa Sofia

Il profilo pianeggiante e l’abbondanza di risorse idriche hanno favorito gli insediamenti fin dal Neolitico. Il sito archeologico di S’Urachi offre testimonianza del periodo nuragico, mentre il grano che ancora in parte ricopre la Penisola del Sinis, insieme alla pesca e al sale garantiti dalle zone umide, ne fece un centro strategico per cartaginesi e romani. In epoca medievale San Vero fu parte del Giudicato d’Arborea, ed è presumibilmente nel XIII secolo che vennero erette le mura della chiesa romanica, i cui resti sono integrati oggi nella ristrutturazione diretta fra l’ultimo ventennio del XVI secolo e il 1604 dal genovese Agostino Carchi e del cagliaritano Francesco Escano, come ricorda l'epigrafe si staglia sullo stipite destro dell'arco trionfale. Romanico, gotico-spagnolo, rinascimentale e barocco: gli stili si sovrappongono e si armonizzano nell’eclettica stratificazione dei secoli.
 
All’interno, nella penombra, il sacerdote legge un passo del vangelo di Matteo. L’aula si distende nelle ampie cappelle laterali. Al centro l’unica navata, suddivisa in tre ampie campate da sottarchi a tutto sesto. Una nicchia custodisce la preziosa statua della Madonna di Spagna, regalata a San Vero Milis dal mare. Il simulacro venne mutilato e bruciato in più parti durante la Guerra Civile Spagnola. Consegnata al mare affinché fosse salvata dalla furia iconoclasta, venne trasportata dalle correnti in Sardegna. A raccoglierla, il 10 aprile del 1937, fu un pastore del vicino centro di Narbolia. Ogni anno, nel mese di maggio, la popolazione di San Vero festeggia “lo sbarco” con la messa, la processione e gli spettacoli musicali.

Fuori la luce è cresciuta e accende le decorazioni in pietra vulcanica rossa del campanile, fa brillare il mosaico della cupola “a cipolla”, presente nelle chiese di diversi paesi dell’oristanese. I lavori per la costruzione della torre campanaria cominciarono nel 1752, in epoca sabauda, e si protrassero per circa mezzo secolo. Un’opera a sé stante, di sapore classico, probabilmente progettata da uno degli ingegneri del regno allora presenti nell’isola.

La Cattedrale di Santa Giusta, simbolo dell'architettura romanica

Ma l’esempio più importante di stile romanico nell’oristanese è sicuramente la cattedrale di Santa Giusta, che osserva l’omonimo paese dalla sommità del piccolo poggio situato nella zona settentrionale. Ai piedi dell’ampia scalinata che conduce al sagrato pochi bambini giocano sotto lo sguardo attento delle madri, sedute sulle panchine che occupano la circonferenza del piazzale. In alto, nella roccaforte del sagrato, due turisti stranieri osservano il paesaggio circostante. Commentano, vestiti di maglia e calzoncini, il tepore del sole novembrino.

La basilica fu costruita nella prima metà del XII secolo. Gli artigiani locali vennero affiancati da maestranze che avevano partecipato all’edificazione del duomo di Pisa. Anche qui l’arenaria è protagonista della facciata. Le pietre dei due registri laterali misurano la metà di quello centrale, anticipano la simmetria delle navate. Due stipiti di marmo cingono il portale, sormontati da pseudo capitelli decorati a foglie e da un architrave. La trifora, con le sue esili colonnine di marmo, interrompe per un attimo l’ascesa della facciata, che culmina poi con un timpano tripartito. Sobria ed essenziale, la basilica vive di una maestosità diminuita. Lo si percepisce compiendo il periplo della struttura, apprezzando la variazione dei registri sulle pareti, la ricchezza decorativa dell’abside, rivale in movimento della facciata.

Sette colonne accompagnano le tre navate fino al presbiterio. La penombra che avvolge le panche è interrotta dalla luce delle finestre, illumina gli archi, si addensa di nuovo nella volta a botte delle due navate laterali, nelle capriate lignee di quella centrale. Il marmo necessario alla costruzione venne dai vicini, antichissimi centri di Tharros, Neapolis e Othoca. La basilica ospita due antichissimi capitelli, uno del II secolo e uno del primo secolo a.C.
Una stretta scala dal presbiterio conduce alla cripta dove la tradizione vuole siano conservate le spoglie di Giusta, Giustina ed Enedina, martirizzate all’epoca delle persecuzioni dell’imperatore romano Diocleziano. Il primo a raccontare la storia delle tre martiri fu nel 1616 il canonico Antioco Martis, traduttore di un antico testo latino andato scomparso. Giusta nacque a Eaden, l’antica Santa Giusta, nel tardo III secolo. Figlia di una ricca famiglia aristocratica si convertì al cristianesimo giovanissima, patendo la prigionia e le torture inflittele dalla crudele madre Cleodonia, nemica della nuova religione. La morte di Cleodonia non significò la fine delle vicissitudini per la vergine Giusta. Il nobile Claudius, aiutato dal mago Cebrianus, fece di tutto per costringerla al matrimonio. Giusta chiese aiuto a Dio, che rispose con un violento terremoto che sommerse la città e uccise Claudius, Cebrianus e tutti gli idolatri. Mentre pregava, Giusta fu chiamata in cielo, seguita poche settimane dopo da Giustina ed Enedina, cui aveva dato esempio di conversione. Per la sepoltura la comunità cristiana scelse il luogo stesso della prigionia, un poggio appena fuori dal centro della città.

La luce del mezzogiorno filtra da una feritoia nella cripta e illumina il profilo della statua che raffigura la martire, e la sua leggenda.
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