Gli scalzi hanno già rimboccato tutti i lembi del saio. Premendo sui marciapiedi di via Tharros creano uno stretto passaggio che Efisio Canu attraversa in corsa, come generato e sospinto dalla folla immacolata. Ad attenderlo dove il solco sfocia nella strada aperta il secondo portatore del vessillo, accolto fra gli applausi degli astanti, di chi è affacciato su usci e balconi. Si guarda intorno per pochi istanti, cerca conferma nei volti. La riceve, piega il busto in avanti e si lancia nel mattino luminoso, immerso nel frastuono dei fuochi artificiali, come a condurre lo slancio di una fanteria antica. Lo segue la prima “muda”, il quartetto incaricato di portare la statua del santo. Poi gli altri novecento, una bianca massa compatta progressivamente indotta al movimento: “Evviva San Salvatore!”, chiama uno. “Evviva!” rispondono tutti gli altri, sfilando e svanendo nell’asfalto che abbandona i confini di Cabras. Si guarda intorno frastornato il piccolo Salvatore, chiuso in un minuscolo saio e adagiato sul passeggino, mentre il papà corre. Compirà un anno domani. “È un’emozione troppo grande, non si può spiegare” dice sulla porta di casa Monserrata Spanu, la voce strozzata e lo sguardo rivolto agli scalzi ormai invisibili.
“Dopo quarantadue corse quest’anno non dovevo partecipare. Ma mio nipote è morto in un incidente stradale, è stato lui a spingermi” spiegava mezzora prima della partenza Canu sul sagrato di Santa Maria. “Si fa per la tradizione, per chi non c’è più”, aggiunge il figlio Giuseppe, dodici anni, alla quarta esperienza. “Io ho fatto una promessa. Per chi? Non si dice”. “Io per una persona che non c’è più”. “Io per il popolo di Cabras. Allenato? Più o meno, ho cominciato a metà agosto” raccontano Niccolò, Alessandro e Mauro, quattordici, quindici e diciotto anni, in attesa sulle scale della chiesa. In luglio già si potevano vedere i futuri partecipanti attraversare le vie del paese a piedi nudi, per andare a prendere il caffè con le prime luci del giorno. O correre negli sterrati della pineta, con il fresco della sera nella striscia di terra che separa il mare e i mille rivoli dello stagno, per fare fiato e inspessire i calli. Dentro la chiesa si sta concludendo la messa, gli scalzi al centro e gli altri fedeli ai lati, come per strada.
È cominciato tutto nei giorni del raccolto, cinquecento anni fa, con l’ennesimo sbarco saraceno a promettere razzia all’alba. San Salvatore di Sinis è un piccolo villaggio di contadini e pescatori poggiato sulle sponde dello stagno di Cabras. Non lontano le pietre dell’antichissima città di Tharros e il sito nuragico che avrebbe svelato molti secoli dopo i giganti di Mont’e Prama. Rive dove gli uomini sembrano vivere da sempre. Al centro di S. Salvatore un antichissimo ipogeo, un pozzo sacro che nei secoli ha ospitato il culto pagano delle acque, riti e iscrizioni puniche, greche, romane, versetti coranici. Sincretismi sfumati nel tempo, contenuti e sostituiti nel medioevo dalle mura della piccola chiesa dedicata a S. Salvatore. Troppo esigui nel numero per opporre resistenza, gli abitanti del paese trassero in salvo il simulacro del santo protettore del Sinis, legando ai piedi scalzi frasche secche con cui sollevare una nube di polvere, finzione di un esercito poderoso. Nemmeno le guerre mondiali hanno saputo interrompere la processione, il miracolo capovolto del santo salvato dai fedeli.
Così corrono ancora gli scalzi, dopo mezzo millennio. Pestano l’asfalto e lo sterrato pietroso cingendo lo stagno e inoltrandosi nella campagna, lungo sciame bianco fra la terra smossa, i campi svuotati dal grano e quelli riarsi dall’estate. Quattordici priori guidano altrettanti gruppi, ognuno composto da sessanta/settanta corridori, ripartiti in “mudas” di tre, quattro o cinque uomini incaricati a turno di sorreggere in corsa la statua e portare in testa la bandiera. Sette chilometri per tornare a San Salvatore, dove la folla li ha seguiti per accoglierli con altri applausi e boati, il rispetto dovuto agli eredi di una fuga eroica. “Il calore degli ultimi mesi ha reso granuloso l’asfalto. È stato San Salvatore a sostenermi” dice Andrea, sorridente nonostante il saio incollato alla pelle e i piedi martoriati. Tutti si stringono intorno alla bacheca che protegge il simulacro, toccano il vetro, si segnano. C’è anche il sindaco Andrea Abis: “La corsa degli scalzi è uno fra gli appuntamenti più importanti della comunità cabrarese. Un momento di fede
religiosa e di popolo, di storia e identità”. Sfiniti gli scalzi seguono la statua nei pochi metri che la separano dalla piccola chiesa, accompagnandola con i “coggius”, i canti tradizionali dedicati a San Salvatore.
Nelle prime ore del pomeriggio il cielo si riempie di nuvole scure. Il golfo di Oristano è un ricorrersi di tuoni e fulmini. A San Salvatore la festa si è spostata dentro le case. Dalle porte spalancate sulla strada si intravedono lunghe tavole imbandite di dolci e vernaccia, il chiacchiericcio dimesso o le risa. I pochi turisti si avventurano con gli ombrelli fra le pozzanghere, scrutano le facciate delle “cumbessias”, le spoglie abitazioni del XVII secolo che nel ventennio ’60-’70 sono state lo scenario per tanti film western. “La pioggia quest’anno non ci ha aiutati, ma la corsa e le funzioni religiose, le cose più importanti, sono andate bene, e siamo grati per questo” dice Andrea Scintu, presidente del comitato organizzatore della festa. La casa dove si riuniscono i membri, che opera anche da bar essenziale, è un via vai interminabile di saluti e auguri. “La festa è così sentita perché viene dal cuore” è la sintesi, commossa, della moglie Giuseppina Trogu. “Il paese in questi giorni è unito, anche se il lungo lavoro di preparazione comincia in gennaio e coinvolge moltissime persone del paese”. Sentimento religioso e una laica mistica popolare si confondono, ma a Cabras come a San Salvatore, alla partenza o all’arrivo la ragione, espressa con chiarezza o incastrata in gola come un pianto sembra sempre convergere in un luogo: la profondità scura dei secoli dalla quale emerge, ogni anno, uno sciame bianco di uomini, la fuga e il trucco che hanno creato una comunità.
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